Parole e silenzi nel dolore

Nella mia vita personale e professionale mi capita spesso di confrontarmi non soltanto con il dolore dei miei pazienti o dei miei affetti (e naturalmente anche con il mio) ma anche con il modo in cui questo dolore viene accolto dall’Altro: amici, parenti, persone a noi vicine…

Come “maneggiano” il nostro dolore le persone che amiamo? Mi sembra che la maggior parte delle volte ci sia una profonda difficoltà a tollerare il dolore altrui, difficoltà a capirne il senso o il valore, soprattutto quando non lo si è sperimentato personalmente e sembra così lontano dal proprio vissuto (la maggior parte delle volte, invece, questo dolore è molto più vicino e presente in noi di quello che pensiamo razionalmente). Quello che osservo o che mi viene raccontato “nella stanza della terapia” è come il dolore difficilmente trovi spazio nella relazione affettiva, dove ci si trova quasi sempre impreparati a sostenerlo e ad accoglierlo.

Questa difficoltà di tenuta del dolore sovente si trasforma in parole che coprono i silenzi, volte proprio ad eliminare, quasi magicamente (e quindi irrealisticamente) la sofferenza. Nella maggior parte dei casi si pronunciano frasi precostituite, agite e non pensate, nella fretta di liquidare la questione e di allontanare il senso di impotenza e frustrazione nel non sentirsi d’aiuto. Le frasi che spesso sento dire quando si parla di dolore o che mi vengono riportate mestamente in terapia hanno a che vedere con classifiche del dolore (pensa che c’è chi sta peggio di te, ho conosciuto persone che hanno avuto un problema simile ma con risvolti peggiori e poi…, etc), incoraggiamenti e consigli non richiesti (non pensarci, distraiti, guarda il lato positivo, si vede che doveva andare così, etc). Spesso chi ci sta vicino rischia di trasformarsi in una presenza ingombrante e invadente, incurante del bisogno di solitudine di cui a volte chi soffre necessita, per comprendere cosa accade dentro e fuori di lei. Tutti questi comportamenti servono (illusoriamente) soltanto a chi li mette in atto ma mai alla persona che soffre, che in questo modo ha la sensazione che il proprio dolore non valga, che non sia giusto provarlo, che occorre inibire l’espressione della sofferenza. Il risultato quindi di queste parole vuote, aggiungerei anche aggressive, porta chi affronta un dolore a chiudersi, a non sentirsi riconosciuto nella propria identità e nel proprio diritto di esperire emozioni e sentimenti, non necessariamente sempre comprensibili. Allora il silenzio è spesso il miglior modo di stare vicino a chi soffre, senza sminuire, consigliare o incoraggiare, senza esternalizzare frasi fatte e modi di dire che non possono andare bene per chiunque le ascolti, che gettano il dolore di una persona dentro un contenitore universale di pensieri precostituiti, senza che si tenga conto del vissuto unico di ognuno di noi; un po’ come gettare un rifiuto nel cestino della spazzatura.

Il silenzio è l’unico modo per dare valore al dolore dell’Altro, di accoglierlo senza gettarlo o rigettarlo. A volte dire “ti sono vicino/a”, “mi dispiace” e ascoltare senza aggiungere altro è davvero l’unico modo per aiutare, ammesso che questo sia sempre possibile e quando non lo è l’unica strada relazionale è aspettare che la persona possa elaborare e metabolizzare.

Chiuderei questa breve riflessione con l’augurio che per ognuno di noi la vicinanza all’altro possa essere sempre guidata dal porsi in ascolto di chi ci fa dono del suo prezioso mondo interno, ricordandoci che il dolore di chiunque ha sempre un immenso valore, anche se non possiamo comprenderlo e anche se lo troviamo lontano anni luce da quello che abbiamo vissuto.

Amare vuol dire fare un passo indietro, lasciare tempo, spazio e tregua ed essere presente per come l’altro ha bisogno, non come noi crediamo ne abbia o come ne abbiamo bisogno noi.

Dott.ssa Chiara Spadaro

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