Mi sembra di percepire di frequente questo fraintendimento: lavorare “in” gruppo viene confuso con lavorare “con” il gruppo.
In realtà come sovente avviene in molti interventi “di moda”/richiesti in questo periodo, si ha la sensazione di lavorare con il gruppo ma in realtà si stanno osservando i singoli individui all’interno del contesto socio-relazionale che si sta cercando di analizzare/trasformare.
Per lavorare con le dinamiche di gruppo servono delle lenti speciali che soltanto una formazione specifica può fornire; il gruppo condotto e osservato senza strumenti adeguati scompare, diventa invisibile, nonostante si percepiscano di sottofondo la sua forza e le sue potenzialità.
Quando si progetta un intervento di gruppo dunque occorrerebbe avere chiara qual è la funzione del gruppo stesso:
1) Il gruppo come setting, cioè “semplicemente” un luogo dell’intervento, lavorando così sull’individuo singolarmente in un contesto gruppale o su più individui contemporaneamente
2) Il gruppo come strumento, cioè come mezzo elaborativo e trasformativo. In questo modo è possibile attraversare i conflitti, le violenze, le difficoltà e tutto ciò che di forte il gruppo produce in termini di “distruttività”, per trasformarli in aspetti creativi e costruttivi; in altre parole, uno spazio mentale in cui i componenti del gruppo possano attribuire nuovi sensi e significati alla realtà che li circonda.
In quest’ultima accezione il gruppo viene inteso come “matrice psichica”, come spazio comune in cui “hanno luogo tutti i rapporti, tutte le interazioni tra i singoli membri individuali e tutti i processi di comunicazione, ivi compresi quelli di natura inconscia, sempre presenti e particolarmente complessi” (Foulkes, 1967)
Dott.ssa Chiara Spadaro